Giugno 1814: l’esordio della contraddittoria Restaurazione lorenese

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di Christian Satto (Scuola Normale Superiore)

[Le parole evidenziate nel testo rinviano a link esterni elencati in fondo alla pagina]

 

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Piazza del Gran Duca, in Guida della città di Firenze ornata di pianta e vedute, Firenze, Antonio Campani, 1822 (Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Palat. C.8.1.22). L’immagine è tratta dal progetto on line «Grand Tour. Il viaggio in Toscana dei viaggiatori Inglesi e Francesi dalla fine del XVII secolo agli inizi del XVIII secolo»

 

 

Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, Granduca di Toscana. Incisione di Raffaello Morghen, 1821 (Londra, British Museum)

La legge varata il 27 giugno 1814, richiamandosi a «quella semplicità di organizzazione che l’esperienza di tanti anni, l’abitudine della Nazione […] hanno fatto riconoscere migliore di ogni altra», aboliva il sistema amministrativo introdotto dai Francesi in tema di enti locali, ripristinando la precedente legislazione, varata a partire dagli anni Settanta del Settecento dal granduca Pietro Leopoldo.

 

Dal 1808 al 1814 la Toscana, dopo varie vicissitudini dinastiche e politiche, era stata direttamente annessa all’Impero napoleonico e, conseguentemente, ‘francesizzata’ anche dal punto di vista amministrativo con la suddivisione del territorio in tre Dipartimenti con a capo un prefetto – Arno, Mediterraneo e Ombrone con capoluoghi, rispettivamente, Firenze, Livorno e Siena; a loro volta i Dipartimenti erano ripartiti in circondari (arrondissements) retti da un sottoprefetto. Il governo delle comunità locali, ultimo livello dell’amministrazione territoriale, era affidato al sindaco (maire), affiancato da un numero variabile di aggiunti. Tali uffici, sottoposti al potere esecutivo in quanto «fonctionnaires publics», erano di nomina centrale spettante, a seconda dei casi, all’imperatore o al prefetto. Accanto a queste figure vi erano organismi collegiali con limitate incombenze di rappresentanza delle istanze locali: il consiglio generale di dipartimento, quello di circondario e quello municipale.

Il provvedimento del 27 giugno 1814, inserendosi nel clima antifrancese dominante in quei mesi, soppresse tutto questo e ripristinò gli organismi creati da Pietro Leopoldo, vale a dire – per le comunità locali – l’organo denominato Magistrato comunitativo, composto dal Gonfaloniere e dai Priori. Questi ruoli, secondo i ristabiliti dettami leopoldini, si formavano per estrazione a sorte da liste che comprendevano i maggiori possidenti ripartiti, a seconda dei casi e delle città, tenendo anche conto dell’appartenenza nobiliare. Gonfaloniere e Priori, il cui numero variava in base alla consistenza numerica della comunità, erano estratti tra i possidenti più facoltosi; per il consiglio generale si attingeva invece alla lista di tutti i proprietari della comunità. Al livello intermedio dell’amministrazione territoriale – eliminati i prefetti – venivano ripristinati i quattro uffici di soprintendenza comunitativa, vale a dire la Camera delle comunità di Firenze, l’Uffizio generale delle comunità di Siena, l’Uffizio dei fossi di Pisa e, a partire dall’1 gennaio 1815, l’Uffizio dei fossi di Grosseto, a loro volta collegati al governo centrale dalla figura del Soprassindaco, una sorta di coordinatore delle camere di soprintendenza ‘provinciali’. Insomma, per ciò che riguardava i rapporti tra il centro e la periferia dello Stato, si tornava ad un panorama molto diverso da quello che aveva caratterizzata la Toscana napoleonica.

Uno degli aspetti che maggiormente caratterizzavano l’assetto amministrativo varato da Pietro Leopoldo era infatti l’autonomia delle comunità locali, nei confronti delle quali il centro si percepiva, al più, come coordinatore. Lo Stato leopoldino era insomma, nelle aspettative del sovrano e degli uomini che con lui licenziarono la riforma delle comunità tra 1772 (Volterra) e 1786 (Siena)- per elaborare poi un progetto di costituzione rimasto incompiuto – uno Stato leggero che, anziché pensare ad amministrare le periferie con uomini propri nominati dal centro e sparsi sul territorio come nel modello franco-napoleonico, era invece preoccupato di mantenere in equilibrio i rapporti tra le singole comunità.

 

Joseph Dorffmeister, Grand Duke Ferdinand III in his library, 1797 (Kunsthistorisches Museum, Vienna)

Ebbene, nonostante i dettami della legge, chiaramente antifrancese, ben presto i restaurati governanti lorenesi, celandosi spesso dietro al mito leopoldino, si mossero in direzione opposta a quel sistema tanto mitizzato, attuando piuttosto riforme che richiamavano da vicino, potenziandone la natura accentrata e accentratrice, il sistema napoleonico. È proprio attraverso la modifica dei labili equilibri tra il governo e le comunità locali che si cercò nel corso degli anni di modificare «in chiave restrittiva e centripeta il delicato gioco dei poteri tra il centro e la periferia dello Stato» (Chiavistelli 2006).

 

Il 27 giugno 1814, quindi, rappresentò una data significativa che bene ci rappresenta la natura complessa e contraddittoria della Restaurazione toscana avviata il 23 aprile 1814 quando Gioacchino Murat, ancora Re di Napoli, che con i suoi eserciti aveva ‘liberato’ il Granducato, riconsegnò a Ferdinando III d’Asburgo-Lorena, allora duca di Wurzburg, il trono fiorentino. L’1 maggio, nelle sale di Palazzo Vecchio, aveva avuto luogo il passaggio ufficiale di consegne con il principe Giuseppe Rospigliosi che prese possesso del Granducato nella veste di plenipotenziario di Ferdinando, ancora lontano dallo Stato toscano. Si trattava comunque sia di una fase provvisoria, poiché la piena rilegittimazione del Granducato di Toscana come Stato autonomo, sotto l’antica dinastia, sarebbe giunta solo dopo il congresso in procinto di riunirsi a Vienna a partire dal 1° novembre 1814.

Costretti a confrontarsi con i profondi mutamenti politico-amministrativi e socio-economici degli anni francesi, i funzionari granducali sapevano benissimo che non si poteva tornare indietro nel tempo. Rospigliosi e il governo provvisorio da lui presieduto – tra i suoi collaboratori vi furono Leonardo Frullani, Vittorio Fossombroni e Neri Corsini – operarono inizialmente su due linee: da un lato assicurare l’ordine pubblico per dimostrare che il potere lorenese era ancora in grado di tenere in mano lo Stato (e infatti fu ripristinato il Buon Governo, affidato ad Aurelio Puccini, con poteri più estesi rispetto all’epoca leopoldina); dall’altro cercare di recuperare il rapporto con le élites locali, in particolare i proprietari, messe da parte dai francesi proprio nel settore dell’amministrazione delle comunità all’interno del quale, invece, Pietro Leopoldo aveva conferito loro un ruolo centrale.

Quest’ultimo era il motivo di fondo del provvedimento del 27 giugno. Come ha scritto Luca Mannori, «rifiutato in via di principio il modello napoleonico […] i Lorena puntarono tutto […] sul recupero di quel sistema amministrativo leopoldino che permetteva loro di presentarsi come i difensori dell’autonomismo e di una ordinata libertà locale. Così facendo, però, essi si trovarono subito a fare i conti con le insufficienze che quel sistema aveva già denunciato e che nella prosaica luce della Restaurazione si rivelarono ora in tutta la loro ampiezza» (Mannori 2003). Al centralismo napoleonico, insomma, si voleva contrapporre il modello comunitativo leopoldino, «illuminato» e maggiormente rispettoso delle specificità locali e delle tradizioni toscane. I governanti lorenesi, consci del forte consenso di cui godeva il mito di Pietro Leopoldo, lo utilizzarono insomma ampiamente per legittimare una revisione dell’amministrazione locale del granducato che andasse ben oltre una pura e semplice restaurazione dell’antica legislazione. Fu piuttosto una tendenza generale, dai contorni contraddittori – con l’abolizione di un nuovo modello, il ripristino di quello vecchio, la sua trasformazione progressiva in qualcosa vicino a quello soppresso – confermata da una serie di provvedimenti successivi, che aveva come mèta finale il rafforzamento dei poteri di controllo e d’indirizzo del centro sulle comunità al fine di realizzare un moderno sistema burocratico-amministrativo.

Un primo e chiaro passo verso questo punto d’arrivo fu la legge del 16 settembre 1816, con la quale si modificarono sensibilmente i rapporti che legavano la periferia al centro: il Gonfaloniere sarebbe stato scelto dal Granduca all’interno di una lista di candidati preparata dal Soprassindaco; per i Priori si prevedeva l’estrazione di un numero doppio di candidati rispetto ai posti da occupare affinché il Soprassindaco, in accordo con la volontà sovrana, potesse scegliere quelli che reputava migliori. Il censo richiesto ora per questi incarichi fu raddoppiato, così restringendo il numero di coloro che presentavano i requisiti per far parte del magistrato e favorendo i grandi proprietari, in larga maggioraza nobili. In particolare si ampliarono le competenze e funzioni del Gonfaloniere che, ha osservato Stefano Vitali, divenne «una figura che richiamava, pur con le debite differenze, quella del maire francese». Il centro, dunque, si era assunto sempre più la regolazione della periferia, tendenza poi ulteriormente perfezionata dalle riforme varate da Leopoldo II nel novembre del 1825 (Vitali 1996).

La vicenda appena descritta si dimostra interessante per capire quanto la Restaurazione operata dai Lorena non corrisponda ad un disegno di cieca reazione agli sconvolgimenti provocati dai francesi, e neppure ad un tentativo scientificamente perseguito di escludere la nobiltà possidente dall’amministrazione dello Stato. Anzi, la Toscana di quel periodo si configura come un laboratorio per vedere come, consci dei cambiamenti intervenuti, un gruppo di funzionari formatisi durante l’ancien régime abbia cercato di adeguare l’architettura dello Stato alle nuove sfide che i mutati tempi ponevano, senza mutuare un modello estraneo alla loro cultura, ma cercando di adeguare quello che conoscevano ed avevano contribuito a costruire. Non si trattò di un processo lineare, anzi gli aspetti contraddittori furono molti, ma il punto interessante è proprio questo, poiché fa emergere come la Restaurazione sia stata – al di là di quell’immagine semplicistica appiattita sul cupo oscurantismo, immagine ben impressa in una certa storiografia oltre che nel senso comune – un periodo di sperimentazione di modelli costituzionali alternativi a quelli ereditati dal vicino Settecento.

 

Bibliografia di riferimento

 

  • A.Chiavistelli, Dallo Stato alla nazione. Costituzione e sfera pubblica in Toscana dal 1814 al 1849, Roma, Carocci, 2006
  • A.Chiavistelli, Una nuova costituzione territoriale. La riforma comunitativa di Pietro Leopoldo, in G. Pinto, L. Tanzini (a cura di), Poteri centrali e autonomie nella Toscana medievale e moderna, Firenze, Olschki, 2012, pp. 157-177
  • B. Sordi, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Milano, Giuffré, 1991
  • L. Mannori, Presentazione a Stato e amministrazione nel Granducato preunitario, numero monografico, «Rassegna Storica Toscana», 2003, n. 2, pp. 235-244 e, ivi, A. Macrì, La costituzione del territorio. La dimensione comunitativa nel Granducato di Toscana durante la Restaurazione (1814-1825), pp. 301-348
  • M. Mirri, Riflessioni su Toscana e Francia, riforme e rivoluzioni, in «Annuario dell’Accademia etrusca di Cortona», XXIV (1990), pp. 117-223
  • G. Pansini, I mutamenti nell’amministrazione della toscana durante la dominazione napoleonica, in I. Tognarini (a cura di), La Toscana nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Napoli, Esi, 1985, pp. 553-579
  • S. Vitali, Amministrazione comunitativa e controlli in Toscana nell’età della Restaurazione, in «Annale ISAP», 4/1996, pp. 149-173.

 

Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato il 15 maggio 2014):


Come citare questo articolo: Christian Satto, Giugno 1814: l’esordio della contraddittoria Restaurazione lorenese, in "Portale Storia di Firenze", Giugno 2015, https://www.storiadifirenze.org/?temadelmese=giugno-1814-esordio-della-contraddittoria-restaurazione-lorenese
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