Giugno 1866: a Firenze viene proclamata la terza guerra d’indipendenza nazionale

Immagine di copertina:

A. Gatti, L’Italia che il Genio di Casa Savoia presenta alle altre Nazioni, 1861, affresco. Firenze, Palazzo Pitti, Palazzina della Meridiana



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di Christian Satto (Università di Firenze)

[Le parole evidenziate nel testo rinviano a link esterni elencati in fondo alla pagina]

G. Induno, Vittorio Emanuele II a San Martino, 1861, olio su tela. Milano, Museo del Risorgimento

«Sua Maestà il Re d’Italia ha dichiarata la guerra all’Austria […] Tempo era venuto che le aspirazioni nazionali si dovessero compiere! Oramai addietro non si ritorna più! Il Re riprende alla testa del suo esercito quella impresa gloriosa che per ben due volte gli ha dato l’occasione di cimentare la sua corona e la vita sui campi di battaglia» Così il 20 giugno 1866, Bettino Ricasoli annunciava alla Camera dei Deputati che, finalmente, si riprendevano le armi contro l’Austria per completare l’unificazione territoriale del Regno (B. Ricasoli, Discorsi parlamentari, pp. 199 e seguenti). Il Salone dei Cinquecento, pubblico e deputati insieme, accolse applaudendo fragorosamente il discorso di insediamento dell’unico presidente del Consiglio dei ministri toscano degli anni di Firenze capitale. La tanto attesa, quasi sospirata, guerra per spazzare via «i torti, le ignominie di tanti secoli d’oppressione straniera, non pienamente vendicati a Palestro e San Martino» – come si legge ne «La Nazione» del 21 giugno 1866 – iniziava.

La città manifestò la propria euforia ricoprendosi di bandiere tricolore e ripetendo parole d’ordine come «viva il Re!» e «viva l’Italia!». Già da qualche tempo, comunque, si registrava un clima favorevole ad un’eventuale guerra contro l’Austria. A Palazzo Pitti, la reggia, si erano visti i primi clamori di fervore patriottico: allo sbucare della carrozza che riaccompagnava Vittorio Emanuele, la banda della guardia nazionale passò da uno dei consueti motivi che scandiva il cambio dei picchetti alla marcia reale in segno di giubilo e di attaccamento dinastico al primo soldato d’Italia. Come scriveva Ugo Pesci nel suo Firenze Capitale «il popolo applaudì lungamente e fragorosamente il Re che si preparava a riprendere la spada di Goito e di San Martino, e lo fece affacciare più volte al balcone» (p. 95).

Dichiarata la guerra, il fermento si accese ulteriormente. La città era puntualmente descritta in stato di giubilo: la popolazione festeggiava ogni drappello di soldati; il Consiglio comunale stanziava 30 mila lire a favore delle famiglie dei richiamati e ne prometteva 2 mila a chi avesse preso una bandiera nemica. Ma fu ancora intorno alla figura del Re che si verificarono le manifestazioni maggiori. Il sindaco Luigi Guglielmo di Cambray Digny, come riferiva «La Nazione» del 22 giugno 1866, nel suo indirizzo di saluto al Sovrano, che partiva da Santa Maria Novella per raggiungere l’esercito al campo, sottolineava come Firenze partecipava con tutta se stessa «all’universale entusiasmo compresa di ammirazione, animata dai più caldi sensi di riconoscenza, pronta a dar l’esempio dei maggiori sacrificii che il proposito di vincere esigerà dalla nazione». «Firenze – continuava il sindaco – in questa suprema occasione saluta in Voi il liberatore d’Italia, il Magnanimo fondatore del nuovo Regno e lo accompagna dei più fervidi voti». Il treno prese la via del nord tra gli evviva delle due nutrite ali di folla che si erano schierate lungo un consistente tratto dei binari.

A. Gatti, L’Italia che il Genio di Casa Savoia presenta alle altre Nazioni, 1861, affresco. Firenze, Palazzo Pitti, Palazzina della Meridiana

Venezia e il Veneto, allora ancora dominio asburgico, erano gli obiettivi italiani di una guerra che vedeva il Regno alleato della Prussia. L’8 aprile 1866, dopo lunghe negoziazioni, i due Stati avevano sottoscritto un trattato di alleanza che si caratterizzava per una natura fortemente asimmetrica, tutta a favore di Berlino. Infatti, se le trattative per una riforma della Confederazione germanica fossero fallite costringendo la Prussia alla guerra contro l’Austria, l’Italia sarebbe dovuta intervenire. Nessun articolo, però, prevedeva gli stessi obblighi per Berlino in caso di uno scontro che poteva sorgere, ad esempio, da una preventiva invasione austriaca dell’Italia. Per contenere l’asimmetricità dell’intesa, si stabiliva la sua durata in tre mesi. Nonostante tutto il trattato era vantaggioso poiché, in caso di vittoria, l’Italia avrebbe annesso il Veneto. A ulteriore garanzia Alfonso La Marmora, presidente del Consiglio, ottenne il benestare di Napoleone III. La Francia giocò un ruolo importante durante le trattative, poiché Napoleone desiderava una guerra abbastanza lunga da logorare i contendenti e consentirgli di ergersi ad arbitro. In questo quadro rientrava anche l’accordo riservato con Francesco Giuseppe del 12 giugno 1866: in caso di vittoria in guerra, l’Austria si impegnava a cedere il Veneto alla Francia, che lo avrebbe in seguito trasferito a Vittorio Emanuele II su cui Napoleone III prometteva di influire. Raccomandò, infatti, a Nigra «che l’Italia non facesse la guerra con troppo vigore» (Costantino Nigra a Alfonso La Marmora, Parigi, 12 giugno 1866 in Documenti diplomatici italiani, s. I, vol. VI, p. 781). La convenzione, inoltre, vietava all’Austria, quand’anche avesse combattuto e vinto sul fronte italiano, di pretendere modificazioni territoriali del Regno, salvo che questo si disintegrasse da solo per una rivolta interna. L’Italia, per il frutto di queste combinazioni, avrebbe avuto il Veneto comunque. La via più onorevole, però, era una soltanto: combattere e vincere.

Salone dei Cinquecento (“Il Giornale Illustrato”, a. II, n. 50, 16-23 dicembre 1865)

Gli italiani, inoltre, volevano battersi vigorosamente e vittoriosamente in una guerra europea per un altro motivo, molto più politico. La classe dirigente voleva dimostrare che il Regno poteva stare tra i grandi d’Europa. Così si sarebbe impressa una svolta decisiva alla vita nazionale, poiché il faticoso lavoro di dar corpo concreto all’unità, iniziato all’indomani della proclamazione del Regno, si era rivelato più complesso di quanto si fosse creduto. Così diceva anche la fiorentina «Nuova Antologia», per la quale la guerra si configurava come la giusta medicina per permettere al paese di ritrovare fiducia in se stesso spostando l’attenzione dai gravi problemi interni alla grande prova di politica estera ormai all’orizzonte: «l’Italia – scriveva l’autorevole periodico moderato nel maggio 1866, p. 213 – ha avuto una grandissima fortuna. La sua condizione interna era cattiva, più cattiva che non fosse mai stata da cinque anni, quando essa ha ritrovata una posizione estera così eccellente, che è bastata a medicare in gran parte le magagne di quella». La nuova stagione di vita unitaria da tutti auspicata con l’abbandono di Torino in favore di Firenze sembrava finalmente all’orizzonte.

La partenza del re da Firenze (“Il Giornale Illustrato”, a. III, n. 26, 30 giugno-7 luglio 1866)

Iniziò a quel punto l’attesa per le notizie dal fronte. I fiorentini, ricordava Pesci, osservando Ricasoli che «uscendo da Palazzo Vecchio dove era la presidenza del Consiglio, dalla porta di dietro in via de’ Leoni, si avviava a casa, solo ed a piedi» (p. 101), cercavano di intuire qualcosa da un gesto o da una movenza inconsueta. Il barone, però, era una sfinge e gli interrogativi rimanevano puntualmente senza risposta. Prima della fine di giugno, tuttavia, la fiduciosa attesa per un esito vittorioso della guerra, ritenuto da tutti scontato, si risolse invece in un’amara realtà che sconfessò i sogni di gloria nutriti da gran parte della classe dirigente dell’epoca. Il 24 di quel mese a Custoza le armate italiane vennero respinte dagli austriaci al di là del Mincio. Non fu un rovescio decisivo. Bastò tuttavia a mettere in luce i problemi tecnici e personali che indebolivano il comando supremo, diviso fra Vittorio Emanuele, La Marmora e Cialdini, rendendolo incapace di approntare ed eseguire un efficace piano di guerra. «La Nazione» del 26 giugno annunciava ai fiorentini che «le prime notizie che riceviamo dal campo non sono conformi agli ardenti nostri desiderii». Il 27 luglio, invece, il giornale doveva dar conto del fermo di alcuni che avevano sparso false notizie di vittoria cosicché in alcuni balconi si era visto il tricolore. Ma, come si è detto, non c’era nessun successo da salutare con le bandiere.

Veduta di Firenze (“Il Nuovo Giornale”, a. II, n. 14, 4 aprile 1869)

Sul finire di giugno, dunque, si aprì una pagina molto complessa e drammatica in cui il governo italiano dovette affrontare in primo luogo una difficile scelta: cedere alle pressioni della Francia ed accettare la transazione concordata tra Napoleone III e Francesco Giuseppe; oppure continuare la guerra e cercare disperatamente una significativa vittoria militare in grado di spazzare via le ombre di Custoza. La prima strada, oltre a compromettere l’onore guerriero della nazione, avrebbe ribadito in faccia a tutto il continente la subalternità dell’Italia alla Francia; la seconda, avrebbe permesso al Regno di affermarsi a pieno titolo nel consesso delle grandi potenze per far valere senza tutela alcuna i propri scopi bellici. Ricasoli, chiamato a sciogliere il nodo, scelse la seconda via. Arrivò, però, una nuova, e più dura, sconfitta. Il disastroso esito della battaglia navale di Lissa, 20 luglio 1866, mise fine ai sogni di gloria militare. A nulla valse la vittoria riportata a Bezzecca dai volontari guidati da Giuseppe Garibaldi il quale, all’ordine di ritirarsi e rinunciare all’offensiva, rispose con il famoso «obbedisco!». L’Italia, a rischio di abbandono da parte dell’alleato prussiano, che la sua guerra l’aveva vinta con la battaglia di Sadowa (3 luglio 1866), dovette accettare i dettami della diplomazia: con la pace di Vienna (3 ottobre 1866) Venezia e il Veneto, previo un plebiscito, diventavano italiani. Francesco Giuseppe, però, avrebbe ceduto le sue province non a Vittorio Emanuele II direttamente, bensì, clausola umiliante per il giovane Regno, a Napoleone III che poi le avrebbe trasmesse al sovrano sabaudo. Firenze apprese il 4 ottobre della firma, salutata da centouno salve di cannone della Fortezza da Basso che rimarcarono la delusione per la grande prova fallita. Alcuni protestarono contro chi esponeva il tricolore, poiché così «festeggiavasi la vittoria dell’Austria», come si legge ne «La Nazione» del 5 ottobre 1866.

Firenze capitale aveva visto messa alla prova un’Italia ancora troppo fragile per rivendicare il ruolo di grande potenza europea. Gli uomini della destra capeggiati da Ricasoli compresero che era meglio dare assoluta precedenza a quei complicati problemi interni che la guerra aveva illuso di poter risolvere con una vittoriosa affermazione militare. Come scriveva proprio Ricasoli a Pietro Torrigiani, «quando studio e lavoro saranno le due grandi idee di moda in Italia, potremo dire veramente che l’Italia sarà» (Carteggi di Bettino Ricasoli, vol. XXIV, p. 95).

 

Bibliografia di riferimento

 

  • U. Pesci, Firenze Capitale (1865-1870). Dagli appunti di un ex cronista, Firenze, Bemporad, 1904
  • S. Bortolotti, La guerra del 1866, Milano, Ispi, 1941
  • Carteggi di Bettino Ricasoli, voll. XXII, XXIII, XXIV, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1967, 1868, 1970
  • B. Ricasoli, Discorsi parlamentari, a cura di A. Breccia, Polistampa, Firenze, 2012
  • Una città per la nazione? Firenze Capitale d’Italia (1865-1870), a cura di A. Chiavistelli, numero monografico di «Annali di Storia di Firenze», X-XI (2015-2016)
  • H. Heyriès, Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta, Bologna, Il Mulino, 2016
  • Da Custoza a Mentana. Ricasoli e Rattazzi alla sfida del completamento del processo unitario. 1866-1867, a cura di G. Manica, Firenze, Polistampa, 2017

Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato nel maggio 2018)

 

 

 

 


Come citare questo articolo: Christian Satto, Giugno 1866: a Firenze viene proclamata la terza guerra d’indipendenza nazionale, in "Portale Storia di Firenze", Giugno 2018, https://www.storiadifirenze.org/?temadelmese=giugno-1866-a-firenze-viene-proclamata-la-terza-guerra-dindipendenza-nazionale
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