25 e 27 febbraio 1073: la marchesa Beatrice presiede due placiti a Firenze

di Enrico Faini (Udine)

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Di febbraio l’erba non cresce e ai cavalli non resta che ruminare placidi nelle stalle. Nel cuore del Medioevo, di febbraio, le battaglie vere si facevano rare; restavano quelle combattute in punta di diritto. I placiti non erano altro che corti di giustizia, simili, per certi versi, ai tribunali di oggi. Al calore dei braceri perfino la tetra eloquenza degli avvocati si faceva sopportabile.

 

Miniatura raffigurante Beatrice, marchesa di Toscana, nel codice della Vita Matildis di Donizone, sec. XII

Doveva far freddo a Firenze, in quello scorcio di febbraio del 1073. Beatrice, marchesa di Toscana, rendeva giustizia al chiuso del palazzo vescovile e non, come poteva succedere nella bella stagione, nell’atrio posto tra il battistero e la chiesa di Santa Reparata. La marchesa, del resto, era per l’epoca una donna anziana: aveva almeno una cinquantina d’anni, essendosi sposata la prima volta intorno al 1040. Firenze, poi, non l’aveva mai circondata di particolare calore. Cinque anni prima i Fiorentini avevano cacciato il vescovo Pietro Mezzabarba, un suo protetto. Nel 1055, mentre si trovava a Firenze al severo cospetto dell’imperatore Enrico III, aveva perduto, ancora bambini, due dei suoi figli: Federico e Beatrice. Le restava solo la più piccola, Matilde, donna fatta in quel 1073.

 

Nel palazzo del vescovo, attorniata da uomini, Beatrice, due volte vedova, aveva più di un motivo per sentirsi sola. C’era, accanto a lei, il fior fiore della nobiltà locale. C’era il bellicoso conte Guido IV dei Guidi. C’era l’uomo del conte in città, l’onnipresente Gherardo di Fiorenzo dei Caponsacchi. C’era Giovanni, figlio del defunto castaldo cittadino Donato, già servitore devoto di Enrico III. C’era lo scaltro Albizzo di Azzo, progenitore degli Ubaldini del Mugello, che si barcamenava tra la fedeltà a Guido e quella al vescovo. C’era, poi, una folta schiera di uomini di legge, almeno sette: un gruppo certo sufficiente a imbastire discussioni pedanti sulle più rare eccezioni. Questa corte tutta maschile era comunque pronta ad ubbidirle: Beatrice, in quel congresso, era di gran lunga la più importante e non solo per il titolo che portava.

Più del titolo contava la sua nascita: figlia di un duca della Francia del nord (Lorena) e nipote dell’imperatrice Gisella, madre di Enrico III, nelle sue vene scorreva il sangue dei sovrani tedeschi. In Italia era giunta grazie al matrimonio con Bonifacio di Canossa, marchese di Toscana, il più magnifico tra i principi del Regno italico. Ai primi del secolo successivo, a cavallo degli Appennini, i racconti delle feste per quelle nozze avevano già assunto toni da leggenda: si diceva che il vino venisse attinto con vasi d’argento direttamente dai pozzi. La politica, comunque, non aveva tardato a mostrarle il suo volto brutale. Bonifacio era caduto vittima di una congiura – organizzata forse da Enrico III – nel maggio del 1052. Beatrice, prontamente risposatasi con un duca lorenese ribelle a Enrico, era stata fatta prigioniera proprio a Firenze e trattenuta un anno in Germania fino alla morte dell’imperatore nel 1056.

La morte del secondo marito alla fine del 1069 l’aveva destinata definitivamente al governo solitario della marca di Tuscia. L’Italia del secolo XI riservava alle donne – quelle d’alti natali, ovviamente – un’autonomia impensabile appena cent’anni più tardi. Le donne, come i figli maschi, potevano ancora ereditare un patrimonio fatto spesso di terre e diritti sugli uomini. Matilde, figlia di Beatrice e Bonifacio, avrebbe continuato fino al secondo decennio del secolo XII la tradizione di un governo toscano tutto al femminile.

 

Miniatura raffigurante Bonifacio di Canossa nel codice della Vita Matildis di Donizone, sec. XII

Dell’attività di Beatrice a Firenze nel febbraio del 1073 restano solo due documenti su due cause differenti attinenti a conflitti sul possesso di terre. Quasi certamente le questioni trattate furono molte di più. Tuttavia, come sempre accade quando si parla di cose anteriori al secolo XIII, sopravvivono solo i ricordi legati a chiese e monasteri, conservati negli archivi di quegli enti: efficientissimi per l’epoca. In questi documenti, inoltre, l’intervento di Beatrice appare minimo: appena l’imposizione della sua autorità, del suo banno, su soluzioni che, evidentemente, dovevano già essere state concordate tra i contendenti. Non era quello il momento di fomentare i contrasti. L’imperatore, nel cui nome la marchesa amministrava la giustizia, non era più l’orfanello che Enrico III aveva lasciato alla sua morte. Enrico IV si era fatto uomo e sembrava aver ripreso dal padre tutta la spegiudicata intraprendenza. Nuvole nere andavano addensandosi sul capo di Beatrice in quei giorni di febbraio. Tra la stirpe di Beatrice e quella degli imperatori non correva buon sangue: troppo potente si era fatta questa dinastia femminile e troppo amica dei vescovi e dei papi riformatori, ribelli al volere del sovrano. Toccò a Matilde, sette anni dopo, sperimentare il duro risentimento del giovane Enrico: una guerra che sarebbe passata alla storia come lotta per le investiture. Firenze, stavolta, sarebbe stata al fianco della marchesa.

 

Lettura di approfondimento:

  • Donizone, Vita di Matilde di Canossa, a cura di Paolo Golinelli, Milano, Jaka Book, 2008.

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