di Sara Mori (Università di Macerata)
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Immagine di copertina:
I Giornalisti politici fiorentini. Lunario per l’anno 1848. Manifesto murale con al centro una vignetta caricaturale dei vari giornali politici fiorentini, in gara per arrivare al Progresso, rappresentato come una luce in alto a sinistra. In testa, a cavallo, è «La Patria»; seguono «L’Alba», anch’essa a cavallo, quindi (a piedi, e con gran fatica) «Il Ricoglitore», «Il Giornale militare», «La Rivista», «Il Sabatino». «Il Poliglotta» è a dorso di un asino, ormai stremato, mentre «Nulla di nuovo» è disteso a terra. Ai lati della caricatura è posto il calendario, mentre nella parte inferiore una canzonetta satirica spiega la scena.
Il foglio è conservato nel fondo Autografoteca Bastogi (cassetta 63, fascicolo 11) della Biblioteca Labronica Francesco Domenico Guerrazzi di Livorno, che ringraziamo per la cortese concessione.
La parola de’ privati permessa e non interdetta, custodita e non legata, lungi dall’essere arma contro il governo sarà lo scudo suo impenetrabile. La stampa adoperata alla legale ricomposizione toscana, sarà l’officina della ragione che domanda, e della ragione che concede.
Così si esprimeva Vincenzo Salvagnoli, avvocato empolese esponente del gruppo dei liberali moderati toscani, nel suo Discorso sullo stato politico della Toscana pubblicato a Firenze a fine marzo del 1847. Nel Granducato di Toscana infatti erano state recepite con grande attenzione le novità del vicino Stato pontificio, dove Pio IX aveva emanato un editto sulla stampa il 15 marzo 1847 con il quale concedeva la libertà di pubblicare giornali politici comunque sottoposti a censura preventiva.
Già dal 1846 era in atto in Toscana una prolifica attività di stampa clandestina, attività che si mostrò, a differenza di quanto accadeva negli altri Stati della penisola, quale fenomeno ben definito e con un preciso obbiettivo. Se altrove infatti la stampa clandestina era espressione di un malcontento o di un’insofferenza nei confronti di uno specifico atto del governo, nel Granducato essa si configurò quale strumento di opposizione moderata e di stimolo permanente, con il preciso intento di indurre il governo a concedere la libertà di discutere, tramite la stampa, di riforme e dei mezzi ritenuti necessari per conseguire «il miglioramento morale e materiale di tutte le classi della popolazione», come si usava dire al tempo.
Principale fautore di questa nuova forma di lotta politica fu Giuseppe Montanelli che così ne scrive nelle sue memorie:
A me sembrò che la stampa clandestina, per riescire efficace, doveva smettere lo stile violento e declamatorio, e parlare il linguaggio pacato della ragione. Io diceva ai miei amici – Vogliamo che il diritto di discussione sia sanzionato dal Governo? Impadroniamocene pure di motuproprio; e poiché è diritto naturale e imprescrittibile, il cui esercizio non ha bisogno di licenza dei superiori, pratichiamolo nel solo modo che è in nostro potere; ma pratichiamolo così dignitosamente, che la coscienza pubblica sia subito dalla nostra, e con evidenza conosca che siamo interpreti di giustizia; per mostrarci degni di libertà, seguiamo da per noi il confine che la divide dalla licenza e badiamo di non passarlo. La tattica di questa specie di agitazione consisteva nell’ordinarla in modo che il governo fosse ridotto all’impotenza di farla smettere, e quindi, se non altro per disperazione dovesse riconoscere la libertà della stampa.
La Presidenza del Buon Governo, organo ‘centrale’ della polizia granducale, cercò di contrastare tale diffusione con molti arresti e sequestri di materiale e torchi.
Leopoldo II, tuttavia, sempre più pressato dalle rivendicazioni del giornalismo clandestino decise di modificare sensibilmente le disposizioni in merito alla censura sulla stampa aprendo ad alcune concessioni. La conseguente legge del 6 maggio 1847, entrata in vigore dal 1° giugno, prevedeva un regime che subordinava la stampa di qualsiasi scritto all’autorizzazione preventiva di revisori statali. Che cosa era cambiato rispetto alla precedente normativa? Sostanzialmente – e non era poco – il governo si apriva al dibattito pubblico anche su argomenti politici, prima vietati.
A Firenze veniva istituito il Consiglio superiore di revisione, composto da quattro consiglieri e da un presidente scelto tra gli impiegati regi della classe superiore. Potevano pubblicarsi le opere che non offendevano «la Religione ed i suoi ministri; la pubblica morale, i diritti e le prerogative della Sovranità, il Governo e i suoi Magistrati, la dignità e le Persone dei Regnanti anco esteri, le loro Famiglie e i loro Rappresentanti, l’onore dei privati Cittadini», e più in generale quelle che non contenevano «cose atte a turbare in qualsivoglia modo il buon’ordine e la quiete dello Stato, sì nei suoi rapporti interni che esterni». Per tutelare i lettori dei giornali, si obbligò i giornalisti a citare la fonte delle notizie politiche: se il fatto era «di tal natura da interessare l’ordine pubblico, o la quiete dei privati, l’Uffizio di revisione dovrà chiedere schiarimento sulla verità o credibilità del fatto stesso; ed ove il richiesto schiarimento non fosse dato o non si trovasse soddisfacente, non dovrà permettersi la pubblicazione». Se il direttore di un giornale pubblicava articoli non approvati doveva pagare una multa (da 25 a 300 scudi), in caso di recidiva rischiava anche il carcere (da 15 giorni a 2 mesi) e la sospensione del giornale (fino a un anno) o la sua totale soppressione. Anche per gli stampatori era prevista una multa (50 scudi) se avessero aperto un esercizio senza licenza o avessero stampato opere non approvate. Finiva direttamente in carcere chi stampava in proprio senza le necessarie approvazioni.
La riforma rappresentava un passo in avanti considerevole per i sudditi toscani che adesso si vedevano riconosciuto il diritto ad una (seppur moderata e parziale) libertà di espressione; parte dell’opinione pubblica sarebbe stata maggiormente favorevole ad una censura repressiva, vale a dire un sistema che prevede il controllo dello scritto dopo la pubblicazione con l’eventuale suo ritiro e sequestro.
Come è intuibile il decreto generò una larga produzione di giornali politici, che furono fondati un po’ in tutte le principali città dello Stato. Dal maggio 1847 al marzo 1848 ai quindici giornali di argomento letterario o erudito che già si stampavano se ne aggiunsero più di ventinove. Di questi, sedici aprirono a Firenze, fra cui gli importanti «L’Alba» e «La Patria», due a Livorno, due a Pisa, cinque a Lucca, tre a Siena e uno a Pistoia. Molti interruppero le pubblicazioni dopo pochi numeri per mancanza di finanziamenti e, spesso, anche di idee originali, altri invece cambiarono più volte nome, con avvicendamenti continui nel gruppo di redazione.
Il governo si era deciso a formulare tale normativa anche per porre un freno alla stampa clandestina e illegale di fogli e volantini politici. Tuttavia, il 7 agosto 1847, il Buon Governo faceva notare come alcuni articoli politici, regolarmente pubblicati dopo l’approvazione della censura su giornali politici o politico-letterari, venissero in seguito ristampati in fogli volanti e diffusi. La Consulta di Stato – interrogata sulla fattibilità di un nuovo provvedimento per limitare tale attività – rispondeva però che la legge non vietava questa prassi e che, anzi, l’articolo 21 delle Istruzioni per l’esecuzione della legge sulla stampa affermava che l’approvazione degli articoli di argomento politico era valevole per tre mesi; suggeriva dunque di integrare la legge stessa per porre un freno alla «non laudabile diffusione di tanti foglietti col nome di bullettino che filtrano disgraziatamente anche nelle infime classi popolari». Pertanto con una Notificazione della stessa Consulta, emanata il 31 agosto, si proibiva «di vendere, distribuire o proclamare sulle vie, piazze ed altri luoghi pubblici, e molto meno affiggere al pubblico, scritti, stampe o disegni di qualunque genere ancorché approvati dalla Revisione, senza averne prima richiesta ed ottenuta speciale facoltà dall’Autorità governativa locale». (Sia la Legge sulla stampa, che le Istruzioni e la Notificazione si possono consultare nell’Archivio storico del Comune di Firenze, fondo Leggi e Bandi, anno 1847).
La legge del 6 maggio – a ben vedere – non era intervenuta direttamente sulla libertà di stampa, bensì solamente sul diritto riconosciuto ai sudditi di proporre articoli e discussioni che spettava, poi, al governo accogliere o rigettare. D’altra parte, si deve considerare che per uno Stato d’antico regime, davanti alla potenziale minaccia rappresentata dal giornalismo politico, questa legge rappresentava una ‘concessione’ notevole.
Il governo, tuttavia, anche a seguito di tale concessione, divenne oggetto di numerose critiche da parte dei fogli toscani sempre più attenti a questioni politiche e istituzionali. In effetti la legge del 1847 non aveva fatto altro che inasprire i rapporti fra il governo e la stampa, che, sull’onda degli accadimenti e delle tensioni che percorrevano la penisola, pubblicava molto, diffondendo pareri e opinioni e, di conseguenza, molto era censurata. L’aspetto maggiormente inviso ai liberali toscani era il carattere poliziesco dell’ufficio di censura, come scrisse Raffaello Lambruschini in una lettera a Bettino Ricasoli: «Poteva essere la più bella legge e lo sarebbe stata, se il serpente della polizia non ci metteva il suo veleno» (B. Ricasoli, Carteggi, Bologna, Zanichelli, 1940, vol. II, pp. 225-226).
Il progressivo spostamento dei rapporti di forza in favore dei liberali moderati rese comunque molto difficile l’applicazione di questa legge che – da subito – si trovò superata degli eventi e dal ruolo presto occupato dalla nascente opinione pubblica; già alla fine dell’anno, infatti, il governo iniziò a riflettere su una nuova legge che vide la luce il 17 maggio 1848; una legge che – istituendo un regime di censura repressiva – adeguava il settore giornalistico al nuovo status ‘liberal-costituzionale’ dello Stato. Un grande cambiamento era, infatti, sopraggiunto nella vita politica del Granducato: il 15 febbraio il Granduca Leopoldo II aveva concesso lo «Statuto fondamentale», che all’articolo 5 disponeva: «La stampa è libera, ma soggetta ad una legge repressiva».
Letture di approfondimento:
- A. Chavistelli, Dallo Stato alla nazione. Costituzione e sfera pubblica in Toscana dal 1814 al 1849, Roma, Carocci, 2006
- F. Della Peruta, Il giornalismo italiano del Risorgimento. Dal 1847 all’Unità, Milano, Angeli, 2011
- G. Ponzo, Le origini della libertà di stampa in Italia (1846-1852), Milano, Giuffrè, 1980
- D.M. Bruni, Per uno studio della legge sulla censura in Toscana: appunti sulla legge del 6 maggio 1847, «Rassegna storica toscana», xlvi (2000), pp. 43-60
Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato il 18 aprile 2014):
- Scheda su Vincenzo Salvagnoli in SIUSA
- Breve nota sul movimento liberale in Italia
- Testo integrale del Discorso sullo stato politico della Toscana di Vincenzo Salvagnoli
- Profilo di Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti)
- Profilo di Giuseppe Montanelli
- Testo integrale delle Memorie sull’Italia, e specialmente sulla Toscana, dal 1814 al 1850
- Notificazione della Regia Consulta della Legge del 6 maggio 1847
- Un libello che commenta la legge, uscito a fine maggio del 1847
- L’opinione di Giuseppe Montanelli, favorevole alla censura repressiva, in uno scritto del 1847
- Un elenco delle principali testate italiane uscite dal 1847 al 1861
- Alcuni numeri completamente digitalizzati del giornale «La Patria»
- Il settimanale politico pisano «L’Italia» interamente digitalizzato
- Un noto saggio di Franco della Peruta sul giornalismo politico nel Risorgimento
- Profilo di Raffaello Lambruschini
- Note biografiche su Bettino Ricasoli
- Il testo dello Statuto fondamentale