di Marco Bicchierai, Università di Firenze
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Una sconfitta dolorosa, per una Firenze prostrata dall’assedio dell’esercito imperiale, divenne nella storiografia e poi nel Risorgimento un episodio epico, quasi una chanson de geste, con tanto di valorosi (il commissario fiorentino Francesco Ferrucci), vili (il condottiero napoletano Fabrizio Maramaldo), e principi sfortunati (Filiberto di Chalons principe d’Orange).
Francesco Ferrucci, commissario a Empoli e nel contado, con poche truppe aveva cercato durante i mesi dell’assedio di difendere i centri soggetti e di mantenere aperte le vie di comunicazione con Pisa per consentire rifornimenti a Firenze. Dopo aver ripreso e poi difeso Volterra dalle truppe imperiali condotte da Maramaldo, Ferrucci rimaneva una delle poche speranze per i fiorentini ormai stremati. Per questo nel luglio 1530 gli fu richiesto di accorrere in soccorso della città, dopo essersi riunito con il contingente di truppe a Pisa comandato da Giampaolo Orsini e aver raccolto rifornimenti fra Pistoia e Montale.
Partito da Volterra il 15 luglio con circa 1.500 uomini, Ferrucci giunse a Pisa il 18, mentre le truppe imperiali condotte da Maramaldo e da Alessandro Vitelli lo seguivano a distanza. Per i postumi di una ferita, Ferrucci rimase a Pisa fino al 30 luglio, ma intanto gli ordini per il commissario dovevano essere noti agli imperiali che si apprestavano a chiuderlo in una morsa. Mentre infatti le truppe fiorentine (circa 3.000 fanti e 300 cavalieri) si dirigevano dalla Val di Nievole verso la montagna pistoiese, sempre controllate dalle milizie di Maramaldo e Vitelli (più o meno di pari consistenza), lo stesso comandante dell’esercito imperiale, il principe d’Orange, lasciata Firenze conduceva verso Pistoia oltre 3.000 fanti e 1.000 cavalieri.
La mattina del 3 agosto l’esercito fiorentino partì da Calamecca e puntò su San Marcello per necessità di vettovagliamento. Il castello si oppose e fu saccheggiato ed arso, ma si perse del tempo prezioso: il contingente di Maramaldo sopravanzò i fiorentini verso Gavinana, mentre quello del Vitelli rimaneva accosto alle truppe del Ferrucci; inoltre a Gavinana arrivarono anche le truppe del principe d’Orange, quasi raddoppiate da contingenti aggregati a Pistoia. Praticamente circondato, Ferrucci fu costretto a cercare nello scontro una via d’uscita.
La cavalleria fiorentina respinse quella imperiale consentendo alle fanterie – sebbene la retroguardia fosse attaccata dalle bande del Vitelli – di penetrare nel castello di Gavinana in contemporanea agli uomini di Maramaldo. Lo scontro nell’abitato si accese subito furioso. Intanto il principe d’Orange, riorganizzata la cavalleria, la spinse all’assalto della porzione della colonna nemica ancora fuori del castello, ma gli archibugieri fiorentini ressero l’attacco e lo stesso principe cadde colpito da due palle d’archibugio. Il colpo della morte del comandante imperiale non poté essere sfruttato dai fiorentini: l’Orsini riuscì ad entrare nel castello per sostenere Ferrucci, ma gran parte delle sue truppe fu distrutta o tagliata fuori dagli uomini del Vitelli e dalle altre fanterie imperiali entrate in gioco.
Asserragliati nella piazza di Gavinana gli uomini del Ferrucci dovevano ora contrastare truppe nemiche che arrivavano nel borgo da ogni parte, ma respinsero un’offerta di resa. Con un assalto disperato ruppero il cerchio e cercarono di aprirsi a nord la via della montagna. Usciti dal castello Ferrucci e pochi dei suoi furono nuovamente bloccati e, dopo una strenua resistenza presso un casolare, presi prigionieri.
Al di là della ‘leggenda’ relativa alla frase pronunciata da Ferrucci gravemente ferito a Maramaldo che si apprestava a finirlo («Vile, tu dai a un morto» poi divenuto «Vile, tu uccidi un uomo morto»), è molto probabile che sia vero l’atto del napoletano Maramaldo, inteso a lavare l’onta per gli smacchi subiti e a vendicare un suo tamburino inviato come paciere a Volterra e fatto impiccare da Ferrucci come spia. Per il resto i fiorentini contavano oltre 400 caduti – a fronte di poco più di 60 fra gli imperiali – e i superstiti erano prigionieri o sbandati per i boschi.
Nella sconfitta finiva l’irrealistica speranza di sollievo per la città assediata. Ma dal valore delle truppe fiorentine e del loro comandante nasceva un simbolo prima per l’orgoglio fiorentino e poi per quello dell’intera Italia risorgimentale, e per il commissario fiorentino morto a Gavinana ci fu posto anche nei versi del giovane Mameli per quello che sarebbe divenuto l’Inno d’Italia: “Ogn’uom di Ferruccio ha il core, ha la mano”.
Bibliografia di riferimento
Alessandro Monti, La rotta del Ferruccio. Nuove evidenze sulla battaglia di Gavinana (3 agosto 1530), «Bullettino Storico Pistoiese», CXIII (2011), pp. 61-92.
Elenco dei link
- Per il termine «chanson de geste»
- Profilo di Francesco Ferrucci
- Profilo di Fabrizio Maramaldo
- Breve profilo di Filiberto di Chalons, principe d’Orange
- Breve profilo di Alessandro Vitelli