16 giugno 1869: l’aggressione a Cristiano Lobbia

di Christian Satto (Scuola Normale Superiore di Pisa)

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Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1869 il deputato del collegio di Thiene, maggiore Cristiano Lobbia, venne aggredito e ferito in via dell’Amorino, mentre si stava recando in visita all’amico Antonio Martinati. La notizia sconvolse Firenze, allora capitale del Regno, costringendo il governo a misure repressive contro diversi giornali e, in particolare, a disperdere le manifestazioni a sostegno dell’aggredito che si svolsero anche a Milano. Vediamo brevemente il perché di tanta tensione.

Il 24 agosto 1868 era stata promulgata, dopo l’approvazione delle Camere, la legge sulla convenzione per la Regìa cointeressata dei tabacchi fra lo Stato e una società privata, proposta dal ministro delle finanze Luigi Guglielmo di Cambray Digny quale parte integrante del suo piano di risanamento dei conti pubblici che, con un disavanzo previsto per la fine del 1868 in 630 milioni, rischiavano seriamente la bancarotta. La sinistra si oppose energicamente alla convenzione nella quale vedeva un connubio di interessi fra pubblico e privato troppo sbilanciato a favore di quest’ultimo. Fin da subito, quindi, si diffusero insistenti voci circa la corruzione di vari deputati che in cambio del voto favorevole avrebbero ottenuto azioni della Regìa a condizioni particolarmente vantaggiose. Si parlò addirittura di un presunto coinvolgimento di Vittorio Emanuele II per una cifra pari a 6 milioni.

In un crescendo di denunce di corruzione, di campagne giornalistiche e di richieste di moralizzazione della politica cavalcato dalla sinistra crispina e dal suo organo a stampa, «La riforma», alla fine del maggio 1869 si arrivò alla richiesta formale, patrocinata alla Camera da Giuseppe Ferrari, di nominare una Commissione volta a far luce sulla situazione. In questo clima si inserì da protagonista proprio Lobbia, anch’egli, come Ferrari, uomo della sinistra, che prendendo la parola il 5 giugno affermò solennemente, sventolando un grosso plico di carte, di avere le prove inconfutabili della corruzione di alcuni suoi colleghi, prove che avrebbe consegnato solo ad una commissione d’inchiesta. Il bersaglio principale di Lobbia era il pistoiese Giuseppe Civinini, vecchio garibaldino che da qualche tempo aveva abbandonato la sinistra per la destra.

La tanto invocata Commissione d’inchiesta, composta da nove membri, venne infine istituita e si insediò il 14 giugno 1869. Due giorni dopo avrebbe dovuto ascoltare, oltre a Francesco Crispi, proprio Lobbia. Ecco perché l’aggressione in via dell’Amorino la notte precedente alla deposizione produsse tanti clamori. L’episodio arroventò un’estate politica che già si preannunciava oltremisura calda con reciproche accuse di corruzione e di millanteria da sinistra verso destra. Infatti, mentre l’opposizione sostenne il povero Lobbia con tutte le sue forze, additando nell’episodio del 15-16 giugno un tentativo di mettere a tacere la verità, la destra, attraverso i suoi giornali, iniziò a contestare che quell’aggressione fosse stata un’invenzione bella e buona per dare credibilità ad un testimone che in mano non aveva nulla di concreto. Il governo corse ai ripari decretando il 17 giugno la chiusura della sessione parlamentare e perseguitando con i sequestri «La riforma» colpevole, a suo dire, di attaccare l’onorabilità dell’esecutivo con toni inescusabili. Giuseppe Garibaldi, in una lettera di sostegno a Lobbia, definì enfaticamente quelli che si stavano vivendo come «tempi borgiani».

A pagare, in termini di onorabilità, però, fu Lobbia al quale la magistratura, sollecitata dal ministro della giustizia Michele Pironti, approfittando della chiusura della Camera, eventualità che permetteva di processare un deputato senza preventiva autorizzazione, tramutò l’accusa di tentato omicidio verso ignoti in simulazione di reato a carico dell’aggredito. Trasformato da vittima in accusato, sia in termini politici che giuridici, Lobbia fu condannato il 15 novembre 1869 a un anno di carcere militare (mai scontato). Solo dopo l’intervento della Cassazione (10 settembre 1872) egli poté ottenere un nuovo processo che lo assolse per insufficienza di prove, quando ormai nessuno voleva più ricordare l’affaire della Regìa.

La Commissione d’inchiesta, invece, aveva concluso i propri lavori il 14 luglio 1869 e non trovando nulla di concreto – tutti i deputati in possesso di azioni della Regìa le avevano acquistate dopo l’approvazione della convenzione – si limitò ad un appello generico alla moralità. Il governo, il terzo presieduto da Luigi Federico Menabrea, menomato dall’affaire, cadde nell’autunno successivo, e con esso il ministro Digny. I «tempi borgiani» dell’estate 1869 si chiusero, quindi, in un nulla di fatto, o meglio con il cosiddetto «cappello alla Lobbia» che, prendendo spunto dal segno che uno dei colpi aveva lasciato sul cappello dell’aggredito, un intraprendente negoziante di via de’ Calzaiuoli ebbe l’intuizione di esporre argutamente in vetrina in quei giorni tumultuosi.

 

Letture di approfondimento:

  • G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. V, La costruzione dello Stato unitario, Milano, Feltrinelli, 1968.
  • U. Pesci, Firenze Capitale (1865-1870), Firenze, Giunti, 1988 (rist. anastatica dell’edizione Firenze, Bemporad, 1904).
  • C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Roma-Bari, Laterza, 2000.

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