di Antonio Chiavistelli (Università di Torino)
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Immagine di copertina:
Mata (Adolfo Matarelli), Apertura della caccia a Roma, litografia in Archivio Storico del Comune di Parma, Fondo del Risorgimento Italiano, non inv., tratta da «Il Lampione» [post 1860]. L’immagine satirica allude all’approssimarsi della soluzione della questione romana. Nella scena oltre a Pio IX in difficoltà si riconosce, tra gli altri, Napoleone III nell’atto di allontanarsi dal papa e diretto verso Bettino Ricasoli
«Supporre che si vada a Parigi per provocare una crisi ministeriale e un cambiamento interno è offendere l’autonomia e la dignità nazionale»: così, con uno scarno commento a margine di un telegramma dell’Agenzia Stefani, il giornale fiorentino «La Nazione» del 21 agosto 1864 commentava la notizia di non ben precisati incontri tra alcuni esponenti del governo italiano e le più alte sfere della diplomazia transalpina tra cui anche l’imperatore dei francesi Napoleone III. Di più, a ribadirne il carattere sovranazionale e l’assenza di qualsiasi ricaduta in termini di politica interna, l’anonimo notista proseguiva perentorio: «i negoziati con la Francia non possono riferirsi che a questioni internazionali. È priva di qualsiasi fondamento la voce che si agitasse la questione di mutamento della capitale».
La «capitale» a cui si accenna è quella dell’ancora giovane Stato italiano e «il mutamento» è quello che avrebbe dovuto provocarne lo spostamento da Torino a Roma ancora presidiata dalle truppe francesi a garanzia dell’intangibilità papale; un presidio che risaliva al 1849 e che, soprattutto dopo il tornante unitario 1859-1861, nell’immaginario di ampia parte degli italiani, risultava sempre più identificato quale principale ostacolo al completo raggiungimento dell’Unità nazionale. Solo riconquistando Roma all’Italia e facendone finalmente il centro politico e amministrativo dello Stato italiano – si pensava – sarebbe stato possibile eliminare definitivamente ogni tendenza centrifuga alimentata dalla permanenza del papa-re al potere nella ‘città-eterna’. Roma era insomma percepita come luogo e simbolo dell’Unità, la Francia quale garante del potere papalino, mentre il neonato Stato italiano era alla ricerca di un assetto nazionale, efficiente e stabile. La Francia, peraltro, si trovava sempre più gravata dal ‘fardello’ della tutela papale, mentre l’Italia – per quanto insofferente verso quell’enclave – era costretta a una politica di prudenza verso il papa per non urtare i sentimenti dell’opinione cattolica internazionale e dei francesi che in tempi recenti molto avevano sostenuto la causa italiana.
Questi, in estrema sintesi, i termini di quella che da oltre un quinquennio gli osservatori coevi definivano «questione romana» e questi, pure, i termini della questione a cui nell’agosto 1864 i fiorentini potevano pensare leggendo sul giornale cittadino il brano da cui abbiamo mosso. La notizia, per quanto intrigante, pare però non aver inizialmente attirato le attenzioni del pubblico che anche per mezzo del giornale locale era sollecitato ad interessarsi a vicende elettorali e di politica locale.
E, allora, sebbene già il 27 agosto Celestino Bianchi – deputato e redattore del foglio cittadino – avesse chiesto al barone Bettino Ricasoli una sorta di ‘cronistoria’ dei recenti rapporti con la Francia relativi proprio alla «questione romana» a partire dal 1861 (auspice Cavour) passando per il 1862 (protagonista Ricasoli stesso), i fiorentini poterono tornare a leggere sull’argomento solo intorno alla metà del mese di settembre. «La Nazione» del 17 settembre, affidandosi alle notizie di un corrispondente a Torino, ammetteva: «la incognita dei continui viaggi del Ministro Menabrea, del marchese Pepoli, del generale La Marmora […] comincia ad indovinarsi. Le pratiche del Gabinetto Italiano per ottenere dalla Francia qualche concessione rispetto alla questione di Roma pare sieno prossime ad essere coronate di buon effetto».
Maggiore sicurezza poteva manifestare Bettino Ricasoli che già il 13 settembre scriveva al sodale Celestino Bianchi: «grande avvenimento! Il comm. Spaventa è arrivato qui spinto da gentilezza sua e benevolenza dei nostri amici Ministri apportatore della fausta e grande notizia che i 4 punti del Trattato [per l’abbandono di Roma] sono firmati tra il Re e l’Imperatore e saranno ratificati entro la corrente settimana […] l’Imperatore però non volendo avere il peso e la responsabilità per la caduta del potere temporale e volendo che il Trattato abbia tutto il carattere di serietà e di buona fede lo sottopone alla condizione che sia traslocata la capitale o a Napoli o a Firenze», aggiungendo significativamente che «nella discussione [finale] ha prevalso in consiglio dei ministri Firenze» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 1, Roma, 2011, p. 455) Con toni ancor più entusiasti il barone se ne rallegrava con il ministro Marco Minghetti.
Dalla sfera privata a quella pubblica la notizia trapelò velocemente e se il 19 settembre «La Nazione» informava i suoi lettori «in termini da non lasciar dubbi che il 15 e[ra] stata sottoscritta a Parigi fra il Governo del Re d’Italia, rappresentato dal commendator Nigra e dal marchese Pepoli e il Governo dell’Imperatore de’ Francesi rappresentato dal signor Drouyn de Lhuys una Convenzione colla quale è stabilito lo sgombro di Roma […] dentro due anni», è nel numero del 21 successivo che illustrava il trattato commentando il contenuto dell’allegato protocollo segreto che più da vicino riguardava Firenze; proprio in base a tale accordo, infatti, il governo italiano si impegnava a trasferire entro sei mesi la capitale del regno da Torino a Firenze. Un accordo di cui i toscani percepivano la portata ‘dirompente’ (soprattutto per i torinesi) e di cui il foglio cittadino – conforme all’indirizzo che Bettino Ricasoli raccomandava alla redazione – trattava con estrema cautela: «per nessuno è delicato quanto per noi l’argomento. Una cosa però ci interessa di dichiarare perché siamo certi di interpretare il sentimento di tutti quanti i nostri concittadini fiorentini. […] Firenze e la Toscana non vogliono che il compimento della grand’opera […] e se v’è ragione per accoglier di buon grado [tale accordo] questa è che nel trattato appena conchiuso vediamo un indizio sicuro del nuovo incamminamento della questione romana alla sua soluzione definitiva […] conseguentemente il traslocamento della sede provvisoria del Governo a Firenze significa a parer nostro un complesso di idee e di combinazioni politiche che hanno una portata immensa».
Il Trattato era davvero importante, sia per il passaggio di consegne tra Francia e Italia nella tutela dell’intangibilità di Roma, sia per il viatico che l’Italia otteneva a riguardo di una futura, non improbabile, fine del dominio temporale con conseguente passaggio della città eterna sotto la sovranità italiana. In particolare, con questo atto: 1. l’Italia s’impegnava a non attaccare il territorio rimasto dopo il 1860 al papa e a impedire anche con la forza ogni attacco contro di esso; 2. la Francia garantiva il ritiro delle sue truppe entro due anni; 3. il governo italiano garantiva il contributo all’organizzazione di un esercito papale, anche composto di stranieri, sufficiente a tutelare la tranquillità dello stato del papa; 4. l’Italia si dichiarava poi pronta ad addossarsi una parte proporzionale del debito del preunitario Stato della Chiesa.
Alla Convenzione, per volere dei francesi era stato aggiunto un ‘protocollo segreto’ con una clausola-capestro dal valore esecutorio che imponeva all’Italia l’obbligo di trasportare entro sei mesi la capitale da Torino in altra città del regno. Città, che come abbiamo appreso anche dalle parole di Ricasoli a Bianchi, fu presto identificata in Firenze.
La ‘vicenda’ di Firenze-capitale come ‘effetto collaterale’ della Convenzione tra Francia e Italia prese, dunque, avvio in quel settembre 1864 ma, giova ricordare che già nel 1861 Massimo d’Azeglio, segnalando l’opportunità ‘nazionale’ dello spostamento della capitale da Torino, identificava proprio nella città toscana la sede più opportuna a vivificare l’Unità da poco conquistata. Così, infatti, nel suo fortunato pamphlet Questioni urgenti. Pensieri di Massimo d’Azeglio (Barbera, 1861): «a parer mio come sede del governo la città preferibile a tutte la stimo Firenze. Firenze fu il centro dell’ultima civiltà italiana del medio evo. È, come fu sempre, centro della lingua; e la lingua è fra i principali vincoli che riuniscono e mantengono vive le nazionalità» (p. 51), aggiungendo significativamente: «Firenze è inoltre popolata d’uomini ingegnosi, temperati, civili; la popolazione in Toscana è generalmente onesta, non faziosa; […] e quando vi si sia generalizzato l’uso della vita politica a Firenze il Governo potrebbe trovare quel salubre e sicuro ambiente che dicemmo essere per lui la più importante delle condizioni» (p. 52).
Nondimeno, se nel 1861 la questione-capitale era rimasta nelle pieghe di un dibattito teorico, ora, dal settembre 1864 il «traslocamento» da Torino per Firenze era ‘reale’ e iscritto nell’agenda politica del Governo italiano. Uno spostamento che, però, lungi dall’essere solamente atto di amministrazione, presentava implicazioni di natura politica e sociale capaci di smuovere sentimenti di appartenenza di ampi settori della sfera pubblica. A Torino – in particolare – la notizia della Convenzione e del conseguente spostamento della capitale provocò contro il ministero Minghetti violentissime proteste che trasmodarono in una sorta di guerriglia urbana provocando, nel giro di pochi giorni, dal 21 al 24 settembre, molte decine di morti e di feriti. Celestino Bianchi – per citare solo un esempio della ricezione fiorentina di tali eventi – così il 22 settembre ne informava Ricasoli: «il fermento suscitato in Torino [per lo spostamento a Firenze] si è tradotto in fatti luttuosi. La sera del 20 […] vari gruppi di popolo […] si diedero a percorrere la città. [il giorno seguente], poi, i due gruppi si riunirono più numerosi e più minacciosi […] gli assembramenti poterono scorazzare a tutto loro agio: furono fatte violenze alla stamperia della Gazzetta […] [insomma] cominciò quel giro turbinoso di gente d’ogni colore ch’ella si ricorderà aver veduto nel 48. Urla, fischi, sassate […] quattordici tra morti e feriti caddero tra gli assalitori altrettanti feriti e contusi fra i carabinieri» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 1, p. 490); del pari il sindaco di Firenze Luigi Guglielmo Cambray Digny negli stessi giorni avvertiva l’amico concittadino e ministro Ubaldino Peruzzi dei rischi che avrebbe corso recandosi a Torino e – su suggerimento di alcuni comuni amici piemontesi – lo consigliava addirittura «di non farsi vedere nelle strade frequentate».
Diversa, radicalmente diversa la situazione che in quegli stessi giorni si poteva registrare a Firenze dopo la notizia dell’imminente trasporto della capitale sulle rive dell’Arno. Ce lo conferma anche il nuovo prefetto di Firenze, Girolamo Cantelli che, arrivato in città il 22 settembre, nel suo rapporto settimanale al ministro notava: «quantunque l’idea del trasporto della sede del Governo non possa non far molto piacere, pure nessuna dimostrazione di intempestiva gioia, nessun entusiasmo si è manifestato in Firenze» (il documento è citato in S. Camerani, Firenze Capitale, Firenze, 1971, p. 33).
Era, quella del prefetto, un’immagine che molte fonti coeve confermano; «La Nazione» stessa, già il 25 settembre, rispondendo pacatamente ai numerosi attacchi mossi da Torino contro i fiorentini accusati di aver spinto per l’ottenimento della capitale, così argomentava: «il pomo della discordia [con Torino] è stata la traslazione della sede del Governo ma [coloro che accusano] lo sappiano: se Firenze, se le nostre provincie avessero avuto queste ambizioni non avrebbero fatto quel che fecero nel 1860 […] e [noi] ci taglieremmo le mani prima di vergare una sola linea ispirata agl’interessi di municipio. Rinunziammo volentieri nel 1861; rinunzieremmo cento volte nel 1864. Nulla chiedemmo, nulla chiediamo. […] Il modo col quale sono state accolte qua le ultime notizie ci pare ne dia riprova; noi ne siamo alteri e incoraggiamo i nostri concittadini a non recedere d’una linea da quel contegno decoroso che, diremo, un senso istintivo di dignità e di carità di patria a sempre consigliato alla nostra Firenze». Ed in effetti ampia parte del notabilato cittadino – consapevole della natura ‘transitoria’ del ruolo capitale, peraltro ottenuto per motivi diplomatici – poco si agitò e espresse spesso giudizi negativi sullo spostamento paventandone gli effetti nefasti sugli assetti sociali, urbanistici e culturali.
Paradigmatico di questo comune sentire dei dirigenti fiorentini il giudizio di Bettino Ricasoli che, a fianco dell’entusiasmo per il passo in avanti compiuto verso la soluzione della questione romana, a riguardo del ruolo di capitale («tazza di veleno» toccata alla «città nativa»), già il 16 settembre così scriveva all’amico Peruzzi: «la necessità di traslocare la Capitale porterà seco in principio non solo molto dispendio ma non lievi imbarazzi […] il veleno che insinua negli ordini sociali di una città la condizione d’essere una capitale provvisoria, veleno cui manca il tempo di rivolgere a segnare una qualche utilità, molto mi duole che [sia toccato] a Firenze. Parmi per questa città una grande sventura» (in B. Ricasoli, Carteggi, vol. XXI, t. 1, p. 464).
Un sentire che certo non impedì al gruppo toscano in parlamento di manifestare ampio sostegno al nuovo ministero La Marmora garante della Convenzione. Anche l’amministrazione comunale, del resto, si mostrò da subito interessata a dare alla città un volto ‘nazionale’ consono al ruolo di capitale. In tal senso – per rimanere entro i termini della stagione convenzionaria – è da interpretare la nomina da parte del consiglio comunale di una commissione ad hoc incaricata di studiare e proporre i nuovi lavori necessari ad affrontare l’eccezionale situazione.
Si era, nell’autunno del 1864, ancora agli inizi della vicenda-capitale e certo molte altre furono le tappe di quel traslocamento degne di nota; nondimeno premeva intanto sottolineare qui come la firma della Convenzione tra Francia e Italia abbia contribuito a (ri)attivare un processo di costruzione dello Stato nazionale che solo pochi anni prima era ancora di là da essere immaginato. Un processo che invece dal settembre 1864, nel giro di pochissimi mesi, condusse all’apertura del parlamento nei saloni di Palazzo Vecchio e al trasferimento della casa reale a Palazzo Pitti di Firenze.
Bibliografia di riferimento
- A. Battaglia, La capitale contesa. Firenze, Roma e la Convenzione di settembre (1864), Roma, Nuova Cultura, 2013
- G. Belli, Firenze capitale, in Architettare l’Unità. Architettura e istituzioni nelle città della nuova Italia, 1861-1911, a cura di F. Mangone, M.G. Tampieri, Napoli, Paparo, 2011
- A. Brilli, Il viaggio della capitale. Torino, Firenze e Roma dopo l’Unità d’Italia, Torino, UTET, 2010
- R.P. Coppini, L’opera politica di Cambray-Digny, sindaco di Firenze Capitale e ministro delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1975
- S. Camerani, Cronache di Firenze Capitale, Firenze, Olschki, 1971
- U. Pesci, Firenze Capitale (1865-1870) dagli appunti di un ex-cronista, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1904
- M. Minghetti, La Convenzione di settembre. Un capitolo dei miei ricordi, Bologna, Zanichelli, 1899
Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è stato verificato il 25 luglio 2014):
- Scheda su «La Nazione»
- Profilo di Napoleone III
- Scheda sulla «Questione romana»
- Profilo di Celestino Bianchi
- Profilo di Bettino Ricasoli
- Profilo di Camillo Benso conte di Cavour
- Profilo di Luigi Federico Menabrea
- Profilo di Gioacchino Napoleone Pepoli
- Profilo di Alfonso Ferrero della Marmora
- Profilo di Silvio Spaventa
- Profilo di Marco Minghetti
- Profilo di Vittorio Emanuele II di Savoia
- Profilo di Costantino Nigra
- Profilo di Edouard Drouyn de Lhuys
- Profilo di Massimo d’Azeglio
- Scheda sul I governo Minghetti
- Profilo di Luigi Guglielmo Cambray Digny
- Profilo di Ubaldino Peruzzi
- Profilo di Girolamo Cantelli
- Scheda sul II governo La Marmora
- Scheda su Stato nazionale