Giugno 1269, 1289 e 1440: vittorie di primavera

Immagine di copertina:

di Marco Bicchierai (Università di Firenze)

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Plastico della battaglia di Campaldino nel castello dei conti Guidi a Poppi

Nel maggio 1440 Niccolò Piccino rispondeva al conte Francesco da Battifolle, che lo invitava a stanziare le sue truppe in Casentino, che: ‘i suoi cavalli non mangiavano sassi’. In effetti la necessità di foraggiare piccole o grandi armate a cavallo per molti secoli ha determinato la collocazione di campagne militari e battaglie sul finire della primavera. Non è un caso, quindi, trovare nel mese di giugno tre fra le più significative vittorie militari fiorentine: Colle Val d’Elsa, 17 giugno 1269; Campaldino 11 giugno 1289; Anghiari 29 giugno 1440.

 

Cos’altro può accomunare però queste tre battaglie? Possiamo dire che furono tre episodi che indirizzarono il percorso storico, contribuendo a determinare il consolidamento della situazione politica interna della città e la sua supremazia in Toscana. Inoltre si posero subito come pilastri di un epos fiorentino in cui, oltre al racconto degli storici del tempo, giocò – e gioca tuttora – un larghissimo ruolo la loro rappresentazione artistica: letteraria nel caso della battaglia di Campaldino ricordata nella Commedia da Dante (che vi aveva partecipato) attraverso la figura di Buonconte da Montefeltro; pittorica nel perduto affresco di Leonardo della battaglia di Anghiari.

Gruppo di figurini storici raffiguranti il conte Guido Novello alla battaglia di Campaldino. Collezione privata

Ripercorriamo in breve ciascuna delle battaglie per rinfrescarne la memoria. Nel giugno 1269, nonostante le sconfitte ghibelline a Benevento (febbraio 1266) e Tagliacozzo (agosto 1268), la partita in Toscana non era ancora chiusa poiché Pisa e Siena, orientate al ghibellinismo, si erano riavvicinate in funzione antifiorentina. Nella scacchiera delle fazioni un ruolo significativo era quello giocato dai fuoriusciti; per Siena una concreta minaccia era rappresentata dai guelfi che avevano posto la loro base a Colle Val d’Elsa dopo che nel 1268 tale centro aveva cercato la protezione di Firenze. Provenzano Salvani, leader ghibellino e ‘quasi-signore’ di Siena, promosse allora un’azione militare contro Colle e condusse personalmente, insieme al podestà conte Guido Novello dei Guidi, l’oste senese forte di circa 1.400 cavalieri e 8.000 fanti. Da Firenze si inviarono subito rinforzi, che fecero in tempo a entrare a Colle. Si trattava di 200 cavalieri fiorentini guidati da Neri dei Bardi e 400 cavalieri francesi al comando del vicario angioino Jean Britaud che venivano a sostenere i fuoriusciti guelfi senesi e i colligiani (forse altri 200 cavalieri e circa 300 fanti). Il fatto che il grosso dell’oste fiorentina fosse in marcia spinse però i comandanti ghibellini a decidere di spostare l’accampamento. Il Britaud colse l’occasione di questo ridispiegamento per tentare un attacco a sorpresa: la mattina del 17 giugno i fanti colligiani furono inviati avanti a sbarrare la strada alla testa della colonna in movimento, mentre i cavalieri usciti all’improvviso da Colle ne attaccarono il centro e la retroguardia. L’esercito ghibellino fu colto totalmente alla sprovvista e in breve fu in preda al panico. Solo una piccola parte riuscì ad affrontare i cavalieri francesi e fiorentini, ma ne venne travolta. La fuga disordinata contribuì a determinare le dimensioni della vittoria fiorentina: i morti furono circa un migliaio e 1.650 i prigionieri. Cadde anche il condottiero di Siena, Provenzano Salvani, la cui testa fu portata a scherno in giro su una lancia per poi essere issata sulle mura di Colle. Questo atto vendicava la sconfitta patita a Montaperti nel 1260 e chiudeva ogni spazio al tentativo di Siena e Pisa di opporsi con successo al guelfismo fiorentino. Dante immagina nella Commedia la fuoriuscita senese Sapia mentre osserva con soddisfazione dalle mura la rotta dei concittadini.

Nel giugno 1289 la minaccia per il guelfismo in Toscana era, invece, rappresentata da Arezzo, che si poneva come centro di raccordo di un’area ghibellina estesa fra Romagna, Appennino toscano e Montefeltro. Inoltre Firenze intendeva riprendere il disegno di egemonia regionale provvisoriamente interrotto dalla sconfitta di Montaperti. Così, dopo un alternarsi di spedizioni durato un paio d’anni, Firenze colse l’occasione di un sostegno militare angioino per condurre una nuova campagna contro la città nemica. L’esercito scelse un percorso inconsueto per puntare su Arezzo: invece che risalire la valle dell’Arno valicò il Pratomagno, una via più disagevole per uomini e cavalli, ma che portava una concreta minaccia nel Casentino dove sia il vescovo di

Cenotafio di Guillaume de Durfort. Firenze, Chiostro della SS. Annunziata

Arezzo Guglielmino degli Ubertini sia il podestà, il conte Guido Novello, avevano beni e castelli. Composto in prevalenza da fiorentini, l’esercito comprendeva anche truppe di altre città guelfe toscane (Pistoia, Lucca, Siena), di centri minori e di signori alleati, esuli guelfi di varia provenienza (compresi aretini) e un contingente di cavalieri francesi, per un totale di circa 1.600 cavalieri e 10.000 fanti. Per il prestigio e il ruolo politico, oltre che militare, la guida fu affidata al vicario angioino in Toscana, il giovane Aymeric de Narbonne, coadiuvato dal più esperto Guillaume Bertrand de Durfort. Un ruolo di comando avevano anche i fiorentini Vieri dei Cerchi, Bindo degli Adimari, Corso Donati e Barone dei Mangiadori da San Miniato. L’esercito ghibellino, anch’esso composito, comprendeva fuoriusciti ghibellini di varie città (inclusi i fiorentini), uomini di signori aderenti al ghibellinismo, e ovviamente aretini: l’oste si mosse da Arezzo non appena giunse notizia della marcia fiorentina. Al comando vi erano Guglielmino degli Ubertini, il legato imperiale Percivalle Fieschi, il conte Guido Novello, il giovane Buonconte da Montefeltro, Guglielmo dei Pazzi di Valdarno. Nei numeri era però decisamente inferiore all’armata guelfa arrivando a mettere in campo probabilmente non più di 800 cavalieri e 8.000 fanti. Mentre l’esercito fiorentino scese in Casentino senza incontrare resistenza, i ghibellini risalirono l’Arno per intercettarlo e decisero di dare battaglia nella piana, detta di Campaldino, fra Pratovecchio e Poppi, nei pressi del piccolo convento francescano di Certomondo. La battaglia iniziò la mattina di sabato 11 giugno, giorno di San Barnaba. I ghibellini attaccarono con una possente carica di cavalleria, seguita dall’avanzata di gran parte della fanteria. L’urto fu affrontato dalla cavalleria fiorentina (nella prima fila i feditori fra cui era anche Dante) che ebbe la peggio anche se non fu totalmente travolta. I cavalieri ghibellini proseguirono di slancio attaccando la fanteria fiorentina. Fanti e balestrieri, protetti dai palvesari con i loro grandi scudi (“palvesi”), riuscirono però a resistere. Lo scontro al centro divenne confuso e sanguinoso. Una parte della cavalleria fiorentina riuscì a riorganizzarsi e a caricare, ma non riuscì a rompere la schiera aretina. Nel tentativo, anzi, cadde Durfort e fu ferito Aymeric. Intanto però le due ali dello schieramento di fanteria fiorentina si andavano stringendo a tenaglia su cavalleria e fanteria aretine. A quel punto fu decisivo il comportamento delle riserve che entrambi gli eserciti avevano tenuto distaccate. Corso Donati, che comandava la riserva dell’esercito guelfo costituita dal contingente di Pistoia, contravvenendo a quanto stabilito prima della battaglia, decise di gettarsi nella mischia contribuendo a risolvere la situazione. Al contrario il conte Guido Novello attestato con la riserva ghibellina nei pressi di Certomondo, scelse di ritirarsi nel castello di Poppi. La battaglia era vinta, ma fino allo scoppio di un forte temporale continuò il massacro o la cattura dei cavalieri ghibellini. Il bilancio finale fu particolarmente pesante: sul versante aretino si ebbero circa 1.700 morti e 2.000 prigionieri, fra i caduti lo stesso vescovo Guglielmino degli Ubertini, Buonconte da Montefeltro e Guglielmo dei Pazzi. Le perdite fiorentine furono limitate a circa 300 caduti. Dopo Campaldino il ghibellinismo toscano perse ogni ruolo politico autonomo, i casati feudali ancora ostili a Firenze furono drasticamente ridimensionati, e la città del giglio assunse un ruolo di supremazia regionale non più contestabile.

 

 

Il condottiero Niccolò Piccinino in una medaglia modellata da Pisanello nel 1439-1440

Ben diverso era il quadro centocinquant’anni dopo; soprattutto, era radicalmente cambiato il modo di far guerra. La partecipazione di truppe cittadine si era nettamente ridotta a fronte dell’impiego di professionisti, per lo più cavalieri, riuniti in compagnie di ventura che trattavano il loro impiego con i governi, pretendendo riscatti per scongiurare il loro passaggio e agendo in proprio sullo scacchiere politico. Dopo decenni di guerre con Milano, a Firenze il fragile equilibrio interno sotto una recente egemonia di Cosimo dei Medici poteva saltare in seguito a una vittoria delle truppe assoldate milanesi. Il condottiero di queste, Niccolò Piccinino, scendendo in Toscana dalla Romagna, cercò e trovò l’appoggio di fuoriusciti, comunità e signori appenninici. Dopo aver occupato il Casentino, Niccolò si era spostato in Val Tiberina, da dove più facilmente poteva ottenere rifornimenti provenienti dall’Umbria. Scongiurato un cedimento interno, nel giugno 1440, Firenze aveva affidato ai commissari Neri Capponi e Bernardetto dei Medici un contingente di circa 4.000 uomini per affiancare le truppe papali (fanteria e cavalieri per circa altrettanti uomini) guidate dal cardinale Ludovico Trevisan e una compagnia di circa 300 cavalieri guidata dal condottiero Micheletto Attendolo assoldato da Venezia (alleata di Firenze come il papa Eugenio IV). L’esercito della coalizione era riuscito a riunirsi nei pressi del borgo di Anghiari per fronteggiare il Piccinino. Questi decise di attaccare di sorpresa e, rinforzato da un robusto contingente di fanti di Sansepolcro, si mosse il pomeriggio del 29 giugno verso Anghiari. Tradizionalmente si attribuisce all’aver visto dalla collina di Anghiari la polvere sollevata dai cavalli in marcia nella pianura la decisione di Attendolo di condurre rapidamente la sua compagnia ad occupare il ponte sul canale che si trovava sulla strada verso Anghiari, consentendo alle forze fiorentine e papali di prepararsi. Attendolo e i suoi cavalieri sostennero un feroce attacco presso il ponte e furono poi costretti a ritirarsi oltre il canale dall’ingresso in campo del grosso dell’esercito milanese guidato dallo stesso Piccinino e da Astorre Manfredi. Passato il ponte e il canale le truppe milanesi furono però attaccate sulla destra dalle truppe papali e ricacciate indietro. Una lunga battaglia attorno ai due lati del ponte si prolungò per oltre quattro ore, finché una manovra di accerchiamento fiorentino tagliò fuori dal resto dell’esercito un terzo delle truppe milanesi che erano riuscite a passare sul lato anghiarese del canale. La vittoria della coalizione si configurò più nell’aver respinto e frustrato i piani del Piccinino, che successivamente abbandonerà la Toscana, piuttosto che nell’aver distrutto il suo esercito. Tuttavia il celebre commento di Machiavelli, secondo cui in così lungo combattimento non sarebbe morto che un uomo, va inteso in senso provocatorio; si ipotizzano, infatti, circa 900 caduti fra morti e feriti fra i viscontei e intorno ai 300 fra gli alleati. Numerosi furono poi i cavalieri catturati (circa 400, oltre a circa 500 fanti e 2.500 cavalli), ma la liberazione di gran parte di questi fu trattata direttamente e subito come un affare fra professionisti e pochi rimasero prigionieri. Più vero quanto Machiavelli aggiungeva poco dopo: «E fu la vittoria molto più utile per la Toscana che dannosa per il Duca [di Milano], perché se i Fiorentini perdevano la giornata la Toscana era sua, e perdendo quello, non perdé altro che le armi e i cavagli del suo esercito; i quali con non molti danari si poterono recuperare».

 

 

Letture di approfondimento:

  • R. Davidsohn, Storia di Firenze, vol. II Guelfi e ghibellini, Firenze, Sansoni, 1972, pp. 62-66, e 452-465.
  • Il sabato di san Barnaba. La battaglia di Campaldino. 11 giugno 1289-1989, Catalogo della mostra a cura di Scramasax, Milano, Electa, 1989.
  • La battaglia di Campaldino e la società toscana del ‘200, Tavarnelle Val di Pesa, Graficadue, 1994.
  • N. Capponi, La battaglia di Anghiari. Il giorno che salvò il Rinascimento, Milano, Il Saggiatore, 2011.

Elenco dei link in ordine di citazione (il loro funzionamento è verificato il 1° giugno 2012):